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Tra Europa e America un asse da rinsaldare

di Silvio Fagiolo

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31 marzo 2009

Mai il primo viaggio di un presidente americano in Europa aveva suscitato tante attese. Temi e luoghi della missione di Obama racchiudono quasi per intero l'orizzonte della politica estera americana. Se il suo predecessore si era dato più spesso il duro precetto del divide et impera, il nuovo Presidente ripropone quell'idealismo cauto e realista talvolta deriso dal cinismo europeo che pure ha tratto da esso grandi benefici.

Spetta al G-20 di Londra inaugurare il nuovo rassicurante e ragionevole sguardo dell'America sul mondo. Obama arriva preceduto da qualche segno pur labile di stabilizzazione economica, forse il sistema si dimostrerà più resistente e flessibile del previsto. Non è comunque portatore di un nuovo antagonismo tra Europa e Stati Uniti. A Washington la reazione comunitaria alla crisi può essere sembrata frammentaria e insufficiente. Per gli europei la dinamica degenerativa della finanza, al di fuori di ogni giurisdizione nazionale e dunque fuori di ogni controllo, necessita di nuove regole per scongiurare il dies irae dei mercati, il fallimento dell'unica utopia che aveva attraversato indenne il XX secolo.

In realtà sta prendendo forma una nuova architettura di governo globale basata su principi simili a quelli del New Deal ma anche sul sistema plurale dell'esperienza comunitaria. Obama viene accusato in patria di voler imporre all'economia e alla società americana il modello europeo. L'Europa è la sponda dove può raccogliere solidarietà chi invoca un ruolo dello Stato nel Paese che si nutre di liberismo. Come Roosevelt nei cento giorni, Obama è costretto a misure di emergenza ma anche a varare riforme che affrontino la debolezza strutturale del sistema. Compito immenso e solitario, la premessa forse della rinascita delle virtù portanti del Paese, di un nuovo trionfo della audacia pionieristica. A Londra il consenso tra Europae Stati Uniti ci sarà sia sulla regolamentazione finanziaria che sul coordinamento economico. A Strasburgo, luogo simbolico della riconciliazione europea, saranno ricordati i sessanta anni della Nato. Di questa è in gioco in Afghanistan la sopravvivenza non solo formale, ma anche politica e strategica. Il rilancio passa anche attraverso una sua maggiore europeizzazione, con il ritorno della Francia nella struttura integrata. La Francia abbandona definitivamente l'illusione di una sicurezza nazionale autosufficiente, di una inconciliabilità tra cittadinanza europea e difesa atlantica. Oggi la vulnerabilità si manifesta da più parti e le risorse sono più limitate. Potrà la visita di Obama indurre gli europei a superare la convinzione che conviene continuare a rifugiarsi sotto l'ala protettrice dell'America?

A Praga l'incontro con l'Unione avverrà nel segno di una duplice preoccupazione. Il rischio che la crisi riproduca al centro del continente i muri di ieri. Nei Paesi già comunisti la sovranità è stata appena riconquistata e di essa i nuovi membri dell'Unione sono gelosi custodi. L'antico risentimento contro il comunismo può rivolgersi contro l'europeismo. Bruxelles può significare la distanza, il privilegio, la durezza del mercato, una speranza durata troppo poco. Inoltre, imponendo lo spostamento a Est della protezione atlantica gli Stati Uniti hanno fatto emergere nuove tensioni nei rapporti con la Russia. La visita di Obama è rassicurante sui due fronti. Quella Europa non sarà abbandonata ai margini, come sovente avvenuto nel secolo scorso. Con la Russia si può costruire un rapporto più costruttivo se essa torna sulla scena internazionale senza ideologia e senza autarchia.

Infine dalla Turchia Obama si rivolgerà ai popoli oltre la linea d'orizzonte del vecchio continente. Obama lascia cadere la pretesa che la potenza egemone riassuma in se il concetto di Occidente. Obama non è un pacifista. Accresce il contingente americano in Afghanistan, prevede il ritiro dall'Iraq in tempi non distinguibili da quelli di Bush. Ma riconosce il contesto locale e culturale, ammette che i popoli preferiscono trovare da soli l'equilibrio tra democrazia ed ordine, libertà e licenza. Coltiva il rispetto al quale aspirano le culture asiatiche, talvolta sedotte dal fanatismo. Evita il linguaggio totalizzante che ha dato al confronto con i Paesi dell'Islam i connotati di uno scontro di civiltà. Vuole dialogare in Afghanistan con i talebani per isolare il nocciolo duro della guerriglia. In questo scorcio di secolo il tessuto dei rapporti tra nazioni è stato lacerato da un regresso verso l'esaltazione della forza. Nessuno meglio di Obama, con la sua storia, può cogliere le sofferte arretratezze e le paurose diseguaglianze del mondo contemporaneo, i velenosi rancori e le atroci speranze di vendetta che esse alimentano.

Non sarà facile disfare quanto è stato messo insieme da Bush. La risposta alle aperture americane potrebbe essere deludente o ambigua. Ma il Governo ha mostrato la volontà di aprire negoziati con regimi difficili, in primo luogo l'Iran, di lavorare con la Cina per risolvere la crisi economica. Il legame transatlantico non va soltanto rinnovato. Va completamente reinventato lungo le sfide appena evocate. Bush ha rappresentato il declino del mito, Obama la sua rinascita attraverso un improvviso sussulto della società civile.L'Europa non può esibire anche stavolta una mancanza di coraggio enigmatica e inquietante per affrancarsi dalle sue responsabilità globali.

31 marzo 2009
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